Autonomia Siciliana, l’eterna incompiuta
Una antica tradizione di parlamenti, originata nel sec. XI, in periodo normanno; un lontano sentimento indipendentista, un forte movimento separatista, lo Statuto della Regione, approvato con R.D.L. 15 maggio 1945, n. 455 e l’art. 116 della Costituzione che riconosceva a cinque regioni italiane “ forme particolari di autonomia secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali”: ecco gli elementi fondamentali da cui è scaturito il paradigma della Sicilia come metafora dell’incompiutezza.
Realtà incompiuta perché, rispetto a quanto previsto nello Statuto, non vengono abolite le prefetture (Art. 15), non vengono istituite, per gli affari concernenti la Regione, le Sezioni degli organi giurisdizionali centrali (Art. 23) e nel 1956, forse perché funzionava bene, viene soppressa l’Alta Corte con composizione paritetica (sei membri scelti in numero uguale dalle assemblee legislative dello Stato e della Regione) competente a sindacare la legittimità costituzionale delle leggi siciliane e delle leggi e dei regolamenti italiani ove in violazione delle competenze siciliane (Art. 25).
Non viene data attuazione all’art. 39 che prevede che “le tariffe doganali , per quanto interessa la Regione e relativamente ai limiti massimi, saranno stabilite previa consultazione del Governo regionale”, né viene data attuazione all’art. 40 che prevede l’istituzione di una Camera di Compensazione valutaria allo scopo di destinare ai bisogni della Regione le valute estere provenienti dalle esportazioni siciliane, dalle rimesse degli emigrati, dal turismo e dal ricavo dei noli di navi iscritte nei compartimenti siciliani. A ciò si aggiunga la realizzazione, con frammentario ritardo, del trasferimento effettivo delle funzioni previsto dallo Statuto.
Ora, se una delle ragioni, forse la più importante, della specialità regionale è da ravvisare nella necessità di salvaguardare le peculiarità territoriali e sociali delle regioni a cui è riconosciuta (oltreché assopire le spinte centrifughe dal potere centrale), appare evidente che la mancata, integrale, attuazione del dettato statutario volge in tutt’altra direzione, ossia nel tentativo di contenere le “sostanziose” aspirazioni alla valorizzazione del particolare regionale.
Se ciò sia stato un bene o un male è stato spesso rimesso alle posizioni politiche o agli interessi particolari dei vari esegeti del regionalismo o del centralismo, più che ad oggettive valutazioni istituzionali e socio-economiche.
Tralasciando la materia dei rapporti finanziari tra Stato e Regione, oggetto di un notevole contenzioso per la cui trattazione esaustiva non basterebbe una corposa enciclopedia, appare ovvio come, ad es., la mancata realizzazione di organi giurisdizionali sezionali aventi come fine precipuo quello dell’ interpretazione e definizione delle norme aventi diretta refluenza negli affari regionali e nella sfera delle competenze della regione siciliana abbia indebolito l’aspirazione primigenia della specialità della nostra regione, ossia la realizzazione di un sistema istituzionale regionale portato da una Carta delle autonomie con originarie, sostanziose, venature federaliste; impedendo, altresì, una lettura delle norme più “vicina” alle esigenze della Regione.
Lo stesso potrebbe dirsi per la mancata soppressione delle Prefetture, istituzioni per loro natura portate a rafforzare il sistema dei poteri centrali a scapito delle differenze e particolarità dei territori: organi congruenti della “Reductio ad unum”.
Di contro dovremmo anche chiederci quanto la classe dirigente nostrana sia corresponsabile di questo stato di cose, quanto abbia svenduto una autonomia forte della nostra Regione in cambio di parziali e particolari vantaggi di piccolo cabotaggio e quale apporto qualitativo essa abbia dato all’azione politica siciliana. Senza, con questo, volere fornire un alibi alla nostra c.d. società civile e al nostro sistema di valori.
A tal fine, a titolo esemplificativo, basta fare rilevare come il Pil pro capite del Trentino-Alto Adige, sostanzialmente in linea con quello nazionale nel 1951, è diventato nel 2018 del 44 per cento superiore; viceversa, per la Sicilia il Pil pro capite regionale era il 58 per cento di quello nazionale nel 1951 ed è rimasto tale nel 2018.
Poiché i gettiti tributari seguono sostanzialmente il Pil, l’abbondanza di risorse garantita dalle compartecipazioni ha consentito alla Provincia autonoma (P.A.) di Trento di assorbire sempre più competenze statali, mentre la bassa crescita della Sicilia l’ha costretta a rimanere fortemente dipendente dallo Stato, rinunciando ad attivare molte delle competenze previste dal suo statuto (oltre al danno, la beffa).
A ciò si aggiunga l’atavica incapacità della nostra Regione di accedere ai finanziamenti europei. Ancora brucia la perdita di 422 milioni di euro del PNRR per l’agricoltura e le infrastrutture irrigue: dei 61 progetti presentati, nessuno rispettava i criteri di accesso.
E nessuno è responsabile, in barba al principio secondo cui a maggiore autonomia corrisponde maggiore responsabilità verso la collettività, poiché se la Regione viene posta nelle condizioni di poter fare qualcosa autonomamente, investendo proprie risorse, tendenzialmente dovrebbe essere portata a fare qualcosa di migliorativo per la propria realtà territoriale, con maggiore consapevolezza.
Chissà perché, nel decennio 2012-2021, 37.340 giovani laureati tra i 25 e i 34 anni sono andati via dalla Sicilia.
Gianfranco Vecchio