“Libbira Terra”, cento passi di libertà
Novantasette, Novantotto, Novantanove, CENTO. Avanzavano, un tutt’uno. “Libbiraterra, libbiraterra, libbiraterra!!!”. I contadini urlano, d’un fiato lungo, d’un coraggio mai visto, in quelle campagne come un rigogliare improvviso. Volti lineati dal sole, unici nella magrezza, e nella voglia di riscatto. Passi per la libertà. Decenni di rassegnazione, di sottomissione ai padroni, al “don corleone” della zona. Distese colline, filari sconfinati, grappoli di uva nerissima e speziata, a media spalliera. “Libbiraterra, libbiraterra, libbiraterra!!!” , al vento.
Fu quello un raccolto ed una vendemmia eccezionale. E la gente intorno “avia fami”. E Giuseppe e Carmelo, così diversi da tutti gli altri, muli e sognatori silenziosi. Mano nella mano, insieme, nello sguardo fieri verso il cielo ed il pugno intriso di terra, forte e di ribellione. Non passava sera di quella estate, allo scurare dell’orizzonte, senza crollare. Fatica immane per sopravvivere, non passava sera carezzando la speranza… via la rassegnazione, via i mafiosi, via i gabellotti ed il potere che affamava i lavoratori e la povera gente, via!
“Libbiraterra, libbiraterra, libbiraterra!!!”. Ed una notte un forestiero, apparve come un’ombra, di abito pulito e di odore sconosciuto, raccontò loro come nel paese suo si coltivava la terra: “all’imbrunire del sole, all’ultimo raggio, il popolo scava e sotterra i libri dei bimbi nei campi. E questi, grati di tanto, non tradiscono mai. Rubino pieno…e libertà”.
Fisse nella loro mente quelle parole non riuscivano a scrollarsi: ”e questi non tradiscono mai! rubino pieno…e libertà!” .
A distanza, un casolare all’apparenza abbandonato. E tanta gente, un via vai continuo. Sempre all’imbrunire. Quando i loro occhi ed i loro pugni alzavano verso il cielo la speranza . Un signore vestito di rosso porpora ed un luccichio di oro, uomini sfarzosi ed eleganti. Automobili con lampeggianti… un andirivieni continuo. Quasi una cappella votiva, ricchi fedeli in processione…nel buio. E la gente intorno “avia fami”.
Robusto, intimo maturava frattanto, abbandonando un altro giorno, il racconto del forestiero. Finché, d’improvviso, decisero che era il momento. Giuseppe e Carmelo cominciarono a coltivare e a sfamare uno spicchio di terra protetto dal bosco, inaccessibile.
Notte dopo notte, quella terra selvaggia ed umiliata, fu sfamata e riempita dai libri e dai disegni di bimbi della zona, prelevati furtivamente alla luce dei padroni.
L’autunno che venne fu di carestia, una vendemmia terribile, pochi i campi che diedero frutto, si diceva che erano malati. E i signorotti, disperati nel perdere ricchezze e profitto, mandarono via il popolo. E la povera gente, sempre più, “avìa fami”.
Giuseppe e Carmelo invece raccolsero tanto. Un miracolo, una grazia parve, con l’uva nerissima riuscirono financo a trarne un nettare prelibato, intenso e fruttato, che ben presto incuriosì. La notizia andò lontano. E cominciò a destare pericolosamente l’invidia dei “don” del posto.
Un dì, alla prima luce dell’alba, dal cielo e dalla terra, tanti gli uomini che spuntarono nei campi. Fiamma sul berretto.
Improvvisamente, un brivido lungo la schiena, un frizzante senso di leggerezza, un’aria riversa. Videro uscire e portare via con discrezione, scortato, un anziano. Da quel giorno qualcosa cambiò. I più giovani cominciarono ad occupare, a ribellarsi, a riappropriare, dopo decenni.
Novantanove, CENTO, e forse più le terre conquistate e coltivate in poco tempo. Giuseppe e Carmelo, innanzitutto, e gli altri insieme. “Non aviano cchiù fami” e, finalmente affrancati, danzarono per il loro vino: “Libbiraterra, libbiraterra, libbiraterra!!!”.
Francesco Cicerone