Vecchio è brutto? E chi lo dice?

Quando qualcuno mi dice “vecchia”, io spesso rispondo: “Vecchia sarai tu, io sono vintage”. Ora, al di là della battuta, da qualche tempo mi soffermo a riflettere sulla vecchiaia e su ciò che essa significa.
Sarà che ho superato i 50, sarà la nostalgia delle chiacchierate con mia nonna Nella e dei racconti novecenteschi dello zio Cesare, sarà il disprezzo mostrato verso i vecchi durante i due anni di pandemia, trattati come roba inutile e costosa per la società, per questi ed altri inconsci motivi, mi capita di pensare alla vecchiaia.
Devo precisare che nei secoli, anche nei tempi più antichi, la vecchiaia non è stata sempre considerata fonte di conoscenza e saggezza, tanto che Solone, grande riformatore legislativo ateniese, promulgò una legge che obbligava i figli al mantenimento dei genitori anziani. Addirittura, nel periodo della seconda rivoluzione industriale, durante la quale tutta l’Europa cambia aspetto e si assiste allo svuotamento delle campagne a favore delle città che offrivano maggiori possibilità di lavoro, i vecchi erano diventati una zavorra talmente pesante e inutile tanto da essere uccisi dai propri familiari, situazione sociale denunciata da molti autori dell’epoca tra cui Émile Zola nel suo romanzo “La Terre”.
“Oggi viviamo in una cultura che teme l’entropica inevitabilità dell’invecchiamento e lo tratta come una malattia da curare con diete e pozioni, o anestetizzare con botox e silenzio. Dimenticando che il fatto stesso di invecchiare è un incredibile privilegio che nel corso dei secoli è stato negato a gran parte dell’umanità”. Maria Popova, curatrice di The Marginalian
In una società dinamica come quella in cui viviamo, nella quale il tempo non è più considerato ciclico, rispettoso delle stagioni e delle alternanze della vita, ma progressivo, rapido e dritto come una freccia scagliata con forza all’infinito, la parola vecchio assume significato dispregiativo: inutile, in ritardo con i tempi, inadeguato. Vecchio non è colui che sa di più grazie all’esperienza, non è più il vecchio di Platone che, nell’accumulo del suo ricordo, è ricco di conoscenza. Perché questa conoscenza è obsoleta e inutile. Vecchio è chi vive con ansia le novità e non le riesce più a controllare nella loro rapida ed assillante successione. Vecchio è boomer, per dirla come i giovani d’oggi. Max Weber, a tal proposito, già nel 1919 scriveva: “A differenza delle generazioni che ci hanno preceduto, oggi gli uomini non muoiono più sazi della loro vita, ma semplicemente stanchi”. La vecchiaia, oltre che per il decadimento biologico e il condizionamento storico-culturale, è dura da vivere per questo. A ciò si deve aggiungere il “superficialismo estetico” che ha cominciato a dilagare negli anni Novanta del XX secolo e che è arrivato fino a noi con il suo messaggio chiaro e decodificato: Vecchio è brutto! Bisogna rincorrere la giovinezza a tutti i costi, anche a rischio di diventare maschere di sé stessi: chirurgia estetica, palestra, bilancia e specchio sono le ossessioni del nostro tempo. Questa falsità inficia anche i rapporti sociali ed affettivi che non sono più intessuti sull’emotività e la franchezza.
Eppure, nel Levitico (19,32) si legge: “Onora la faccia del vecchio”, perché la faccia è il primo segno su cui si costruisce l’etica di una società. Se la vecchiaia non mostra la sua vulnerabilità, dove si possono rintracciare le ragioni della compassione, l’esigenza di sincerità, la richiesta di risposte su cui si fonda la coesione sociale? La faccia del vecchio è un bene per la comunità, perché la rende cosciente dei bisogni di tutti. la faccia del vecchio è un atto di verità, tanto da fare scrivere a James Hillman che “Il lifting (è) un crimine contro l’umanità” (La forza del carattere, 1999 Adelphi Ed.). La maschera dietro cui si nasconde un volto che ha subito interventi estetici è una contraffazione che denuncia l’insicurezza di chi non ha il coraggio di esporsi per quello che realmente è.
Se riuscissimo a curare le idee malate che la nostra cultura ha diffuso sulla vecchiaia e demolissimo il mito della giovinezza, saremmo in grado di vedere in essa due importanti virtù: quella del “carattere” e quella dell’“amore”. “Invecchiando io rivelo il mio carattere, non la mia morte”, dove per carattere devo pensare a ciò che ha plasmato la mia faccia, che si chiama “faccia” perché la “faccio” proprio io, con le abitudini contratte nella vita, le amicizie che ho frequentato, la peculiarità che mi sono dato, le ambizioni che ho inseguito, gli amori che ho incontrato e che ho sognato, i figli che ho generato” (J. Hillman). E l’amore che, come scrive Manlio Sgalambro nel Trattato dell’età, non cerca più riparo nella “giovinezza interiore” ma scaturisce dall’età del tuo corpo che, non avendo più scopi, può capire finalmente cos’è l’amore fine a sé stesso, l’amore universale.
Dobbiamo guardare i nostri vecchi, senza avere la brutta sensazione di specchiarci in qualcosa che non ci piace. Dobbiamo onorare i nostri vecchi, custodi di memoria, sapienza e Amore per costruire una società migliore.
Monica Cecere