Natale in Sicilia è, ancora oggi, tradizione. C’è aria di festa, si recitano le novene, si preparano i presepi, e l’odore del muschio si mescola a quello dolce ed acre dei mandarini, regalo prezioso dell’inverno isolano; bancarelle stracolme di dolciumi e leccornie, di biscotti tipici, di “passatìempu: ‘a càlia e ‘a simenza e ‘i noccioline”.
Per me, palermitana da generazioni, il Natale significa odore. L’odore buono della cucina della mia famiglia che si spargeva nella grande casa della sorella di mia madre durante le festività, preludio di pranzi e cene luculliane che avrebbero potuto sfamare il triplo degli invitati. Si preparava sempre in più, perché “non si poteva sapere mai”, metti si fosse presentato qualcuno all’ultimo minuto, in quel modo tutto siciliano di dare amore attraverso il cibo. “Dobbiamo aggiungere dei posti a tavola” era una frase ricorrente in quei giorni. Si accoglieva tutti, parenti amici e amici degli amici. Tavolate immense, curate nei dettagli ed apparecchiate con i servizi buoni.
I menù venivano scelti con settimane di anticipo, dopo ardue discussioni tra i cuochi della famiglia. Ognuno di loro dava il suo personale contributo: la zia Cetti e Liliana, mia madre, preparavano i piatti della tradizione, mentre lo zio Roy si divertiva a ripetere qualche ricetta che aveva imparato durante uno dei suoi viaggi. Lui tornava sempre con qualche novità gastronomica e sperimentava nuovi piatti da condividere. La zia Mimma si limitava ad aiutare le sorelle, dando un contributo fondamentale all’organizzazione. Di certo a tavola non potevano mancare “cardùna, vruòcculi e cacuòcciuli” in pastella di mia madre, i ravioli fatti in casa con il ragù ai funghi della zia Cetti, “l’aggrassatu” con le patate fritte a quarti grossi e tuffate nella glassa, il sarago imperiale o la ricciola al forno, il capretto stufato con l’insalata “per togliere il sapore”, le “sfincette” fatte con le patate e la magistrale pignoccata – un anello di croccante al miele con tocchetti di pasta fritta, mandorle e nocciole – della nonna Etta. A questi si aggiungevano i piatti preparati dallo zio Michele, sempre a base di carne: “’u bruciuluni”, involtini alla palermitana, coniglio in agrodolce… a tutto questo ben di Dio si aggiungevano le vagonate di dolci portati dagli invitati.
Piccolo glossario siculo:
Aggrassatu: Stracotto di lacerto o noce di vitello intero cucinato con tanta cipolla
Bruciuluni: detto anche Falsomagro è un rollè di carne di manzo farcita e cucinata in umido nel sugo di pomodoro
Càlia: Ceci tostati
Cacuòcciuli: Carciofi
Cardùna: Cardi
Noccioline: Arachidi
Passatiempu: Passatempo
Sfincette: Palline di pastella fritte, ripassate nello zucchero e nella cannella
Simenza: Semi di zucca essiccati
Vruòcculo: Cavolfiore
E così, il giorno della vigilia, tra il fermento delle preparazioni e l’attesa dell’apertura dei regali, si cucinava. Appena entrati si veniva sopraffatti dai profumi che inondavano le stanze e che si rincorrevano tra loro, si mischiavano, si dividevano ed entravano prepotenti nelle narici titillando le papille gustative: miele, agrumi, spezie, carni, farina, pane caldo. Lavoravano tutti. Gli uomini erano i factotum, spesso mandati fuori a comprare le ultime cose e a montare le grandi tavole. I ragazzini aiutavano ad apparecchiare seguendo i consigli della nonna Nella e, tra un gioco e l’altro, aprivano la porta a chi arrivava.
Era festa e io porterò per sempre con me quel profumo.
Alcune ricette le trovate nel blog: scorzoneraecannella.blogspot.com
Monica Cecere