Diventiamo grandi. Nostro malgrado. E soprattutto a nostra insaputa. Ce ne accorgiamo un giorno qualunque, quando ci iscriviamo in una palestra e scopriamo di non sapere più i nomi degli attrezzi di cui è popolata. Oppure quando, dopo il lavoro, invece di avere voglia di cultura, al massimo abbiamo voglia di verdura, non reggiamo più neanche gli apericena.
La scoperta, di solito, è scioccante, ma graduale. La prima volta non ci credi fino in fondo, ma ti si insinua il dubbio. Dubbio che non riesci più a scacciare. E da lì ogni occasione è buona per misurarti con quella nuova sensazione di non conoscerti, anzi, di non riconoscerti più nell’immagine che avevi di te stesso.
Non è facile cominciare a fare i conti ogni giorno con quel quasi estraneo che trovi riflesso nello specchio. Ti viene voglia di non guardarti proprio più, allo specchio, per non incontrarlo, dimenticarti di lui e tornare alla tua vecchia vita, impermeabile ad ogni incertezza, refrattaria agli imprevisti. Eppure anche Dorian Gray ha dovuto fare i conti con quella caratteristica di noi terricoli che ci spaventa tanto e al tempo stesso ci offre una grande opportunità: il mutamento, la metamorfosi. La legge della natura.
Già, la Natura. Una parola che ha qualcosa di arcano e inesorabile, e che sembra ormai così estranea alle nostre esistenze, sempre più perfettamente asettiche, sigillate in ambienti sterili, incasellate in percorsi protetti, contraffatte da sapori e odori prodotti in laboratorio… e se fosse proprio la natura il luogo dove le dissonanze, le disarmonie, gli squilibri di questa metamorfosi ritrovano un senso e una nuova perfezione?
Non so dire se sia accaduto questo quando sono venuta in Sicilia per la prima volta. E poi la seconda, la terza. Fino a quando non me ne sono andata più. Ma qualcosa è accaduto, qualcosa di profondo e ancestrale. Un equilibrismo di energie: la potenza e la grazia. Ho stabilito un rapporto nuovo con la terra, con il mare, con il paesaggio. Con la Bellezza. La mia felicità è diventata palpabile, l’ho avvertita sulla pelle, nello stomaco, nei piedi, nei muscoli, nei capelli. Mi sono sentita libera come mai prima, felice di niente, appagata solo per il fatto di esistere e far parte di quella “natura”.
La Sicilia mi ha fatto cambiare l’idea che avevo di bellezza. Subito non mi era chiaro, era una sensazione che non riuscivo a tradurre in parole. Spesso, camminando per alcune strade di Mazara del Vallo, di Trapani o altre località costiere, sempre spettinate dal vento, con bellissimi palazzi offesi dal tempo o rovine di edifici lasciati a consumarsi nell’indifferenza generale, avevo la sensazione che comunque tutto fosse al proprio posto, perfetto nella sua imperfezione. Ne assaporavo la bellezza proprio per quello che pezzi di città o di paesaggio mi sapevano raccontare così com’erano, sospesi fra un “non più” e un “non ancora”, ignari di rappresentare le vestigia di un’operosità o di uno spaccato sociale che incarnava una misura del tempo, la caducità e la precarietà della natura umana, e proprio per questo ne moltiplicava il valore rendendola unica e irripetibile.
La bellezza, quella bellezza imperfetta, precaria e ineffabile di una antica tonnara, di una chiesa sconsacrata, di un bastione sbrecciato, testimonianze di civiltà preziose e non perdute, ma solo mutate, mi hanno guarito dalla paura del decadimento che lo scorrere del tempo porta con sé. La natura farà il resto: tornerà a riprendere possesso di quei resti dell’umano fare e allora il tempo tornerà ad essere un “non-tempo”, un tempo puro e senza storia, scendendo come un medicamento sui nostri affannosi stratagemmi per ingannarlo.
Credo ci si possa curare con la bellezza. L’anima e il corpo. Una medicina efficace, però, solo per chi possiede le adeguate capacità percettive, per chi si è “preso cura del sé”, ha addestrato la propria energia a connettersi con quella del paesaggio, del “fuori da sé”.
E proprio nell’isola della luce, un’occasione per avvicinarsi alla bellezza è il momento più buio dell’anno, il solstizio d’inverno. Non è un paradosso. L’oscurità raggiunge il suo apice e la natura segue i cambiamenti energetici di questo nuovo ciclo solare. Anche il nostro corpo e la nostra mente ricevono gli influssi del solstizio d’inverno e pare che l’oscurità renda più facile accedere alla saggezza. Non so se sia proprio così, ma è un’altra piccola grande paura, quella della mancanza di luce, che ho messo a tacere proprio qui, in Sicilia.
Quando fa cattivo tempo, dire che sono meteoropatica è un po’ come chiamare raffreddore una polmonite: ho la sensazione che da un momento all’altro la vita stia per abbandonare il pianeta e, di conseguenza, anche me. Anche la sera, e poi la notte, hanno sempre portato con sé atmosfere difficili, malinconiche e angoscianti, capaci di evocare i miei terrori più intimi e inquieti. Ma è stato qui che per la prima volta ho affrontato, da sola, la mia dipendenza dalla luce. Rispettando i ritmi della terra, ascoltando il richiamo dei tramonti, annusando l’odore della notte. Tutto è andato al suo posto, come il respiro che si fa tranquillo dopo una corsa.
Oggi, riempirmi gli occhi di luce, ogni mattina, e cercare il mio sorriso più bello da regalare al mondo è il mio modo di ringraziare questa terra, che mi si è fatta amica, che mi si è fatta sorella, che mi si è fatta madre.
Katia Salvini